venerdì 29 dicembre 2017

Mauro Pina - L'Ho Scritto Io (Pirames International, 2017)

Mauro Pina non è un nome sconosciuto nel panorama musicale italiano, quantomeno agli sguardi più attenti. Ormai vent'anni fa pubblicava un pezzo arrangiato per lui da Dario Baldan Bembo, tentava una collaborazione con Lucio Dalla, e tra le altre cose fondava un'agenzia musicale, conduceva un programma radio e tentava di farsi notare con un pregiato tributo a Lucio Battisti che ha avuto i suoi momenti di successo. Il cantautore erbese arriva solo nel duemiladiciassette al suo primo sforzo discografico scritto di proprio pugno, un esordio al fulmicotone che lo proietta subito piuttosto in alto, anche vista l'ambizione di fare un lavoro complesso, lungo, un disco integrale che vede addirittura ospite Rosalinda Celentano, assente dalle scene da almeno due decenni. 
Cosa contiene dunque "L'Ho Scritto Io", con questa dichiarazione d'intenti così virulenta inserita già nel titolo? Il contesto di fondo è un pop di pregevole fattura, che spesso salta di genere in genere - come nel pop è giustificato fare - per dare uno spettro molto ampio di sfumature, atmosfere, emozioni, pur peccando di un'eccessiva eterogeneità. "Ora Basta" e "La Risposta" risuonano di progressive rock italiano, gli stessi stilemi trovano il funky in "L'Uragano" in uno sposalizio ideale, e "Inconfondibile" ricorda sicuramente i Beatles, pur avendo dalla sua un'anima delicata e molto radiofonica che rammentano di più il pop italiano degli anni settanta, quando i suoni inglesi iniziavano a fare breccia nella nostra scena. Nei momenti più intensi, come "Can Be Really So", forse si perde un po' il senso di quelle interpretazioni sì dinamiche ma anche precise e malinconiche, dove la voce di Mauro risiede nel suo habitat naturale: fate attenzione ad esempio a "Momenti", un folk americano rivisitato in salsa italica, di conseguenza una ballata, dove la resa vocale è al suo massimo. 

I testi, le melodie, gli arrangiamenti, le scelte nel mixing e nel mastering: tutto suona brillante e studiato al punto giusto, per una confezione che definisce questo lavoro anche dal punto di vista del contorno, dell'estetica - ad eccezione della copertina davvero orribile e "vecchia" - non tralasciando ottimi contenuti lirici. Come già detto, la troppa diversità delle varie canzoni può giocare a sfavore, ma in generale la valutazione del disco non può scendere sotto un buon sette. Congratulazioni a Pina.

lunedì 25 dicembre 2017

Edoardo Pasteur - Dangerous Man (autoproduzione, 2017)

"Dangerous Man", uomo pericoloso. Autore genovese, testi in inglese, ispirazioni americane. Un esordio ambiziosissimo, una sorta di Icaro del songwriting, a partire dall'interpretazione scolastica della lingua anglosassone tipica di noi italofoni che fin da subito distoglie l'attenzione dal prodotto. Dado, questo uno degli alias di Edoardo Pasteur, prova a togliersi dal cilindro il suo capolavoro personale, centrifugando tutta la sua cultura musicale in un concentrato di rock, folk, musica d'autore inglese e americana. Ci sentiamo Bob Dylan, i Dire Straits, Leonard Cohen, i lavori solisti di Robert Plant, ma anche effervescenze latinoamericane, cenni lontani di blues à la John Lee Hooker. Alcuni riferimenti sono al limite del plagio, come "Hey Hey You (The Warriors") con il cantautore di Duluth, in ogni caso un pezzo che suona spontaneo e tra i momenti più alti, complice forse anche la contaminazione cinematografica che spunta celebrando Walter Hill e il suo "Guerrieri della Notte", nella versione inglese intitolato appunto "The Warriors""Brothers (Paris 13th November 2015) è quasi un elegia funebre, seppur con un arrangiamento che la nobilita elevandola a ballad di classe, dedicata ai morti del Bataclan in quello che sembra essere l'attentato terroristico che più ha sconvolto il mondo musicale, che ne sta dando fin troppe interpretazioni, riletture, commemorazioni. Il brano è in realtà molto riuscito, e la critica non è assolutamente rivolta al buon Dado, qui sicuramente commosso, genuinamente s'intende, e in grado di dare profondità al significato del testo anche senza svolazzi vocali e iperboli tecniche. Molti sono i pezzi che suonano standard, già sentiti o comunque fuori fuoco, ma quando si predispone sulla scacchiera il proprio set di mosse più studiate si riescono a scorgere gli effetti delle tante influenze: le cornamuse scozzesi di "Princess Gaze" e il riff di "Big Fish" (altro riferimento al grande schermo, stavolta in omaggio a Tim Burton) che suona come i Santana di "Abraxas" o di "Caravanserai", anche se lo scheletro del brano richiedeva forse un maggior sostegno ritmico.

Di fatto, il difetto principale di questo lavoro è la sua eterogeneità. Superato l'impatto, quasi brutale, con un inglese tanto imperfetto quanto antimusicale, i singoli pezzi risultano tutti gradevoli, ben congeniati, con un gran lavoro alle spalle. Manca però la coesione, e per lavori di questo tipo a volte è necessario anche ragionare su come dare corpo ad un'opera unica piuttosto che a un best of slegato. O forse no? Del resto siamo nell'epoca dello streaming online, le cose sono cambiate, boh...chi lo sa, in ogni caso un'opera che merita l'attenzione che sta ricevendo. 

giovedì 21 dicembre 2017

Luca Bash - Oltre Le Quinte (autoproduzione, 2017)

Luca Bash nasce come violinista, poi conosce la passione per la chitarra acustica e la canzone d'autore. Fonda anche una band, i Bash appunto, che lasciano un segno profondo nella sua anima di musicista, quasi quanto l'incidente in moto che lo mandò in coma qualche giorno. 
Bastano pochissimi minuti, al primo ascolto di questo "Oltre Le Quinte", per capire che chi lo interpreta ha molto da dire, sa come farlo, e ha intenzione di farlo arrivare al destinatario. Il mittente di questo messaggio ha deciso di scriverlo in due lingue, componendo anche la versione in inglese "Keys of Mine", utilizzando tutti gli stereotipi del pop e del rock per imbastardare il tutto in una canzone d'autore volutamente radiofonica che perde di senso proprio nei momenti in cui riesce ad avere maggiore orecchiabilità. I frammenti migliori sono quelli dove si sbizzarrisce con la sua amata chitarra, anche approfondendo l'effettistica ("Come Il Sole" e i suoi delay eterei), ad esempio in "Ti Canterò di me e della Libertà" con il suo assolo finale che calamita tutta l'attenzione risultando uno dei momenti più memorabili di tutto il (lungo, troppo lungo) disco. 
Quando compare un po' di funky ("Tre e non più di tre", "Nu Shu", questa un po' più blanda) si balla ma si notano anche i limiti di una composizione eccessivamente eterogenea, dove ogni brano ha un suo carattere facendo un effetto greatest hits. "Per Non Dire No" svisa nel reggae accennato, vagamente Police nel basso, e "Swing Lover" non nasconde già dal titolo cosa si sta ascoltando. 

Racconta Luca che i vari musicisti coinvolti hanno composto le proprie parti rimanendo dove si trovavano, senza fare grandi session tutti insieme. Purtroppo, questa cosa non è un pregio. La disomogeneità esorbita dai limiti dell'accettabile, rende tutto slegato e quasi ardito. Tuttavia Luca sa scrivere, sa comporre, sa andare oltre agli steccati che delimitano la sua possibilità di esprimersi, facendo parte di un genere totalmente asservito a delle linee di demarcazione spesso invalicabili. Per questo motivo, "Oltre Le Quinte" è comunque ascoltabile e in un certo senso chiama ad un giudizio democristiano, perché è impossibile annientarlo quanto è impossibile venerarlo ed innalzarlo a capolavoro. La verità sta nel mezzo. 

lunedì 18 dicembre 2017

Marco Ro' - A Un Passo da Qui (Romabbella Records, 2017)

Di nuovo critica sociale, anche in questo "A Un Passo Da Qui". Sarà forse sfortunato il sottoscritto, ma ogni volta che ci si avvicina ad un nuovo disco di un sedicente cantautore, si arriva a questo. In realtà, il romano Marco Ro', utilizza toni un po' più accesi e variopinti, cedendo anche a qualche calembour, perché non ha senso fare pop - di questo si tratta - senza ironia. E' comunque un linguaggio che non vuole essere satira, ma intende affrescare in maniera limpida storie e racconti con lo scopo di sensibilizzare, proprio come vuole il progetto di riferimento a cui risale questo lavoro, in collaborazione con Laura Tangherlini di Rai News 24. Si parte dai profughi siriani, dalla storia di Reema ripresa nella title-track, per arrivare ad un'introspezione su di noi, su quello che vogliamo come popolo ma anche come artisti. Divertente e ispirato il featuring con la cantante russa Kira Franka, un brano ("Mosca Mon Amour" è il titolo) che utilizza l'espediente dei brani italiani più celebri all'estero per affrontare un argomento molto serio, ovvero la perdita di identità, la difficoltà di ritrovarsi in un mondo che ci appartiene poco, a noi che siamo un popolo di emigrati a fasi alterne, da sempre. Sonorità mediorientali ("Dune"), momenti più densi e tesi ("La Scala Mobile", un riferimento a questo meccanismo economico che ormai ricordiamo solo nei libri di testo), blues tradizionale ("Sul Paradosso"). Ecco che il lavoro assume l'aspetto di una tavolozza di colori molto completa, che approfondisce varie sfumature e le riesce a sviscerare rendendole cariche di significato. 
L'interpretazione di Ro' non è male, e in più punti si riesce ad apprezzare la sua conoscenza ritmica molto approfondita, datagli da un passato come batterista jazz. Anche la Tangherlini interpreta qualche passaggio, in particolare in "Dune", e la sua voce rende sicuramente il brano prezioso e completo. Generalmente, gli arrangiamenti si apprezzano meno dei testi e della vocalità di Marco, ma hanno il pregio di essere generosi, di dare respiro ai brani regalando più di qualche buon momento strumentale, infine di non essere per nulla banali e stantii. 

Un progetto sensato. Triviale dirlo? No, di fatto è questo il carattere fondamentale di un'opera musicale "impegnata". O ha senso, o non ce l'ha. Qui ci siamo. 

sabato 16 dicembre 2017

Massimo Priviero - All'Italia (Moletto Edizioni Musicali, 2017)

Quasi penso di avere le traveggole, ultimamente, quando vedo che continuano a spopolare cantautori, cantastorie, narratori di vario genere che tentano di raccontare come stanno le cose in Italia. Il divario tra le generazioni, la mafia, la corruzione, ultimamente il clima di inferiorità vissuto dalle donne, e dagli immigrati, infine il terrorismo. Insomma, le solite cose che siamo abituati a sentire ovunque, nel chiacchiericcio di dj stanchi che blaterano alle due di mattina su RTL ai ben più chiassosi talk show, per finire nel disagio assoluto di una domenica pomeriggio in compagnia di Barbara d'Urso. 
La musica, ultimamente, ha assorbito questi linguaggi di polemica continua, di sofferenza, di stanchezza diffusa, andando a saturare il mercato di esemplari, come questo "All' Italia", che tentano di cavalcare l'onda del momento. Andiamo dunque a vedere, con la giusta imparzialità, se è l'ennesimo disco "di troppo", o se il cantautore veneto Massimo Priviero ha invece qualcosa da dire. 
Interessante è da subito notare come moltissimi titoli, otto per l'esattezza, riprendano luoghi geografici ben definiti, identificando subito il disco come un'opera di viaggio, ispirata, se si analizzano le metriche, il linguaggio, l'interpretazione, ai Grand Tour di Goethe e Lassels, o se rientriamo nell'universo musicale, a quei Bob Dylan e Bruce Springsteen spesse volte autodichiaratisi fan di Kerouac, lo stesso che in più occasioni ha reso omaggio al bop di Charlie Parker. Mettendo insieme tutti i nomi citati, si riesce ad inquadrare a malapena la cornice che spiega la naturalezza con cui ci si sposta sul mappamondo dentro a questo disco, anche se alla fine si ritorna in Italia con "Basso Piave", pezzo conclusivo che chiude il cerchio del Massimo Priviero viaggiatore con il classico rientro nella propria patria. Il viaggio è passato per il "Bataclan", per il "Mozambico", per il terremoto del "Friuli '76", avvenimenti e luoghi non proprio connessi a pensieri allegri, ma rientrare nel proprio Veneto ha quasi un senso di rientro da una lunga giornata di lavoro, quando si riesce finalmente ad appoggiare il culo al divano. 
Lettura interessante viene data in "Aquitania" della depressione, dell'assenza di dignità anche nel lavoro, dell'arretratezza mentale che riscontra un giovane emigrato trentino nel tentativo di trovare fortuna in Francia. Siamo nel secondo dopoguerra, e pochi anni prima siamo a "Fiume" - che sarebbe meglio chiamare Rijeka, dal suo vero nome - città croata della celebre impresa dannunziana che costò la vita a molti italiani per compiacere il fascismo mussoliniano di casa nostra, che qui viene narrata senza giudizi storici, sintetizzando i drammi dell'epoca nella classica storia del bimbo rimasto senza padre, morto per l'appartenenza ad una razza, come ancora oggi è molto comune nel mondo. 

Contenuti, narrazione, interpretazione vocale, tutto fila liscio. Gli arrangiamenti, invece, sono molto banali, anche se non ci si aspetta l'impennata progressive in un disco che di fatto è canzone d'autore vecchio stile. Il mixing e il mastering sono molto curati, dando alla voce quel protagonismo che è indispensabile in prodotti di questa risma. I suoni scelti sono coerenti: a volte ricadono nel songwriting americano, altre in quello irlandese, sovente anche nel classic rock. In generale, l'importanza delle parole soverchia la musica, relegandola a mero accompagnamento ed è comunque, ripetiamo, corretto e giustificato dentro i confini di questo genere.

Per concludere, Priviero qui ha dimostrato di saper raccontare alla propria maniera cose che stiamo sentendo da tutte le parti da ormai cinquant'anni. Questa capacità di reinterpretare la banalità con un'individualità forte gli rende onore ed è, di fatto, il motivo principale per cui questo disco non naufragherà nell'oceano di cloni che ci sono in giro per la nostra penisola. 

sabato 14 ottobre 2017

Iron Mais - The Magnificent Six (Maninalto!, 2017)

Sono già passati due anni da quando milioni di telespettatori incollati davanti a X Factor sono stati investiti dal "rock agricolo" degli Iron Mais. Non andarono molto oltre le selezioni, ma la loro caratterizzazione molto forte ed ironica, un'estetica a dir poco sopra le righe, così come la diversità dal mucchio di aspiranti popstar modaioli e commoventi, li ha sicuramente fatti rimanere nella memoria di molti, a dire il vero più di alcuni vincitori. Si, perché con banjolele, violini, banjo, contrabbassi e un po' di ritmica, questi ragazzi sono un sestetto fuori dagli schemi, che punta tutto sulla simpatia e su una notevole capacità strumentale che gli permette di riarrangiare grandi classici come "Nothing Else Matters" dei Metallica e "Another Brick in the Wall" dei Pink Floyd senza mancare di rispetto agli originali. 
Il risultato è un misto di folk, bluegrass, musica western, che loro chiamano ora "cowpunk" e come definizione è pure calzante. Sono sei gli inediti, sei piccole perle di verismo moderno ritagliate sui personaggi che interpretano, in primis il frontman Testa di Cane, gonfie di un sarcasmo intelligente e che non fa leva sugli stereotipi di oggi per far ridere. Per intenderci, si riesce a scherzare sulla necessità di fare il tagliando al trattore, senza ricorrere a battute sui social network o sui talent show. Non poteva mancare un tributo agli Iron Maiden, da cui prendono nome e font del logo, con una "Can I Play with Madness?" veramente azzeccata, forse la miglior rivisitazione dopo "Rhythm of the Night" dei Corona che vince su tutti gli altri brani quanto ad orecchiabilità. Visto che questo pezzo, dai Bastille a retrocedere negli anni, lo hanno rifatto centinaia di artisti, vogliamo dargli uno spazio in rotazione? I ragazzi lo meritano veramente. 

"The Magnificent Six" inquadra perfettamente quello che vogliono gli Iron Mais. Divertirsi, divertire, suonare. Non serve gingillarsi con assoli, tempi dispari, urla sperticate. Basta la voglia di salire sul palco e spaccare tutto. Quando si è in grado di farlo, si arriva, anche se non si suona come i Radiohead. Congratulazioni, veramente. 

mercoledì 4 ottobre 2017

Gizmodrome - Gizmodrome (Ear Music, 2017)

Un supergruppo è un progetto musicale composto da personaggi che precedentemente facevano parte di altre band importanti o note. Facendo qualche esempio (Blind Faith, Asia, Emerson Lake & Palmer) si noterà che per lo più si tratta di progetti con una matrice molto seriosa, quasi si trattasse di forze sovrannaturali che si sono unite per creare qualcosa di un gusto superiore. Come spiegato nel libretto dal batterista Stewart Copeland, la premessa con cui i Gizmodrome si sono formati è semplicemente quella di quattro amici che si sono trovati insieme per divertirsi creando un po' di musica: il fatto che questi amici siano stati in giro con gente come i Police, i Talking Heads, David Bowie, Frank Zappa e  i King Crimson passa quasi in secondo piano. Di certo,  comunque, ascoltando la musica non si ha quel timore reverenziale che si ha con altri progetti del genere e che, qualche volta, tende a scadere nella pretenziosità. 

Dei quattro membri del gruppo, il predominante è di sicuro Stewart Copeland che scrive quasi tutti i testi, compone molte delle musiche e canta tutte la voci soliste. Questo ultimo fatto può sembrare curioso, considerando che due degli altri membri del gruppo, oltre che come strumentisti, sono famosi anche come cantanti solisti mentre Stewart, all'interno dei Police si limitava principalmente a suonare la batteria; in effetti, sicuramente non possiede le capacità canore dei suoi colleghi e certamente ha un'estensione limitata e una timbrica non particolarmente pulita. Eppure, il suo modo di cantare è personale e decisamente piacevole e ben si sposa con i testi ironici che scrive. Non dimentichiamoci, inoltre, del suo progetto solista coevo ai Police, Klark Kent, nel quale cantava e suonava tutti gli strumenti, con pezzi che come atmosfere erano molto simili a quelli dei Gizmodrome; a dire il vero, due brani facenti parte di quel progetto ("Stay Ready", "Strange Things Happen") vengono riproposti anche in questo album, in versioni di gran lunga superiori agli originali per via degli arrangiamenti e delle esecuzioni più brillanti. Ovviamente, però, Stewart Copeland dà il meglio di sé alla batteria: il suo drumming potente e caratteristico che aveva dato tanta personalità ai brani dei Police è intatto anche nei Gizmodrome, con l'aggiunta di un sapiente utilizzo di pattern Africani e di un buon uso delle percussioni. Al basso troviamo Mark King, il frontman del celebre gruppo pop funk Level 42, famoso per il suo massiccio uso della tecnica dello slap che dava un colore più "nero" alla musica. Tuttavia, secondo chi scrive, King dava il meglio di sé quando suonava in pizzicato: si ascoltino, ad esempio, le geniali parti di basso di brani come "The Chinese Way" o "True Believers". Nei Gizmodrome, King opta appunto per questa seconda tecnica, forse per non fare la figura del bassista stereotipato: il risultato è eccellente, solido e creativo e lui e Copeland formano una sezione ritmica di lusso. Ovviamente, il suo marchio di fabbrica si può comunque ascoltare in brani come "Spin This" e "Summer's Coming" ma il fatto che non sia così persistente la rende molto più apprezzabile. Per chi è appassionato di rock classico, il nome di Adrian Belew non necessita di presentazioni: chitarrista e cantante geniale al servizio di Frank Zappa, David Bowie, Talking Heads, Tom Tom Club, King Crimson, Nine Inch Nails (tanto per fare alcuni nomi) e con una sua carriera solista di grande prestigio. Come già accennato, in questo album il ruolo di cantante solista è affidato a Stewart Copeland e la voce di Belew quasi non si sente, se non schiacciata giù nei cori. Questa scelta, apparentemente inconcepibile, riesce ad evitare di cadere nel tranello del supergruppo, togliendo l'ascoltatore dalla zona comfort che l'avrebbe legato una voce famosa e distinguibile come quella di Belew. Comunque, se Ade canta poco, la sua chitarra canta molto ed è uno degli elementi più riconoscibili del disco, con alcuni assolo memorabili, tra i quali si segnalano quelli su "Stay Ready" e "Amaka Pipa". Infine, il gruppo è completato da un Italiano: Vittorio Cosma, tastierista e arrangiatore attualmente membro degli Elio e le Storie Tese ma già in passato con Premiata Forneria Marconi. Cosma è un personaggio sicuramente meno conosciuto a livello globale degli altri tre ma con delle capacità tali che non lo fanno sparire di certo accanto a loro. Le tastiere e gli arrangiamenti di Cosma sono un punto solido di tutto l'album e, a dire il vero, l'idea di formare i Gizmodrome è partita proprio da lui, amico di lunga data di Stewart Copeland e suo collaboratore da un bel po' di tempo. Non deve stupire, quindi, che il disco stesso sia stato registrato in Italia, agli studi Officine Meccaniche di Milano e che sia prodotto da Claudio Dentes, ovvero l'Otar Bolivecic che ha lavorato a diversi album di Elio e le Storie Tese. A dire il vero, Elio stesso compare come ospite in un brano: l'africaneggiante e spassosa "Zubatta Cheve" che non avrebbe certo stonato all'interno dell'album "Figgatta de Blanc" degli Elii.

L'album, come già accennato, ha un piglio molto leggero e divertente, grazie soprattutto ai testi ironici e scanzonati di Copeland e alla sua interpretazione. Tra i brani migliori, oltre alla già citata "Zubatta Cheve", si segnalano le trascinanti "Stay Ready" e "Ride Your Life", la movimentata e ben costruita "Sweet Angels (Rule The World)", la potente "Amaka Pipa", l'orecchiabile "Man in the Mountain" e lo strumentale di chiusura "Stark Naked" che Copeland aveva composto ai tempi dei Curved Air e di cui si può ascoltare una versione completamente diversa sul disco "Live at the BBC". La produzione è generalmente buona con tutti i suoni nitidi e chiari ma in alcuni brani la voce è un po' troppo presente ("Strange Things Happen") e, forse più per via del mastering che del mixaggio, l'ascolto ad alto volume a volte risulta un po' affaticante e fastidioso. Comunque, musicalmente, ci si trova di fronte ad un prodotto accessibile e facilmente assimilabile, magistralmente eseguito e magistralmente arrangiato. Chiunque si aspetti un disco maestoso e artistico per via delle connotazioni con i King Crimson e per la portata delle persone coinvolte, è destinato a rimanere deluso: questa è musica senza pretese, anche se non superficiale. Di conseguenza, chi, invece, vuole semplicemente ascoltare un disco solido, fatto bene e che mette di buon umore, troverà pane per i suoi denti. Del pane molto gustoso e leggero.

martedì 3 ottobre 2017

Giulia Pratelli - Tutto Bene (Rusty Records, 2017)

Giulia Pratelli è una giovane, ma per nulla acerba, cantautrice toscana, giunta alla prova di questo "Tutto Bene"con un carnet di storie da raccontare davvero notevole. Per farlo, si circonda di nomi di un certo spessore, da Zibba a Diego Esposito, passando per uno dei più grandi drummer italiani (Fabio Rondanini, già con Calibro 35, Afterhours, ecc.), creando un pot-pourri in alcuni frangenti troppo eterogeneo ma comunque espressivamente concreto, valido, diretto. 
Il linguaggio è principalmente quello del pop nostrano, quello sempre un po' sottovalutato dalle radio, tagliando una bisettrice che partendo da Gino Paoli e Luigi Tenco arriva, ai giorni nostri, a Daniele Silvestri e Niccolò Fabi, senza tralasciare il periodo iniziale di Carmen Consoli e alcune uscite recenti di Marina Rei. Proprio un brano di quest'ultimo, realizzato assieme all'amico Max Gazzé, viene rivisitato dalla Pratelli in uno dei momenti più eclatanti del disco, una "Vento d'Estate" modernizzata ed elettrificata, tratteggiando quella cifra stilistica che è propria e unica di quest'autrice: la capacità di realizzare un sano electro-pop senza cadere in nessun stilema già sentito ("Resto Ancora Un Po'"). Musicalmente, abbiamo identificato dunque l'anima nazionalpopolare immancabile e della quale onestamente siamo un po' saturi, più che altro perché il mercato non è evidentemente in grado di accogliere con l'attenzione meritata nemmeno i progetti più degni, a causa di un disastroso sovrannumero di sforzi similari. 
Liricamente, Giulia ci prova a differenziarsi da altri autori, a tratti riuscendoci, comunicando una passionalità e una profondità di vedute che possono spiazzare se fatte combaciare con la realtà anagrafica.  "Nodi", "Se" e "Penelope" spiccano sicuramente, anche se non si distingue tra le undici tracce un episodio davvero superiore agli altri. 

Che dire, qualche singoletto di sicuro appeal radiofonico, una gran voce, testi scritti bene e brani arrangiati a dovere. Manca però qualcosa che sia in grado di farla uscire dal mare magnum, dal calderone di musica italiana e italiota. Speriamo che tutti gli elementi luminosi e di classe sparpagliati in "Tutto Bene" riescano ad essere convogliati in un seguito a maggior densità di originalità. Non una critica, ma un auguri

domenica 10 settembre 2017

Francess - A Bit of Italiano (Sonic Factory, 2017)

E' strano vivere in un periodo in cui gli artisti tentano sempre più di affermarsi con il revival, rivisitando il passato con una DeLorean e portandosi a casa momenti del nostro patrimonio musicale per consegnarlo ai posteri attualizzato. O scopiazzato. In ogni caso, sono scorciatoie che vengono prese sempre più spesso, ottenendo un lasciapassare per l'interesse dei media che trovano più facile commentare l'ennesima cover di Modugno piuttosto che analizzare una novità discografica sana e genuina. 

Francess, nome d'arte della ventottenne italo-giamaicana nata a New York Francesca English, ha dalla sua la multiculturalità genetica, ambientale, reale, e questo sicuramente la assiste nel portare a casa uno splendido risultato pur facendo l'ennesima riproposizione di vecchi classici italiani. Prima di tutto, si è permessa il lusso e l'audacia di rendere contemporanei brani ormai scolpiti nella roccia, immutabili, conosciuti anche fuori dal Belpaese così come sono, anche senza la necessità di adulterarli in qualche modo. In seconda battuta, l'ha fatto con testa e dignità, non scegliendo nuovamente vesti swing, jazz, orchestrali, ma andando a navigare nei linguaggi lounge, latini, tropicali, mantenendo l'elettronica protagonista, in primo piano, ma conservando una natura timida e poco aggressiva. Niente casse dritte da serata a Riccione, per intenderci. E così, tra una versione latin pop con chitarre in levare di "Attenti al Lupo" e una "Vacanze Romane" vagamente industriale, notturna, cerebrale, le sue reinterpretazioni in inglese colgono nel segno, andando a unire due mondi separati da un oceano con una traduzione dignitosa, che rispetta la metrica, e una voce clamorosamente azzeccata. Lo stesso avviene per Buscaglione ("Guarda che Luna"), Gino Paoli ("Il Cielo in una Stanza") e soprattutto "Vengo Anch'io No Tu No" di Jannacci, Dario Fo e Fiorentini, divertente nell'originale del 1967, divertente qui. L'inedito "Good Fella", che si legge nella cartella stampa essere una dichiarazione d'intenti / manifesto sul proprio modo di intendere la pluralità di input culturali a cui è sottoposta l'autrice, non risuona tra i migliori momenti dell'album, ma restituisce comunque l'immagine di un'artista fervida, visionaria, che potrebbe riservare per il futuro uno squisito album di musica originale contemporanea e in equilibrio tra più mondi. 

venerdì 1 settembre 2017

La Differenza - Il Tempo Non (d)Esiste (SMR/Universal, 2017)

Il tempo non desiste, il tempo non esiste.
Riflettendo su questi concetti richiamati dal titolo del quinto disco in studio degli abruzzesi La Differenza, ci viene automaticamente da considerarlo autoriferito. Il tempo non sembra essere passato in maniera troppo brusca da quando con un ottimo pezzo intitolato "Che Farò" ribaltarono i pronostici piazzandosi al secondo posto di Sanremo Giovani, riproponendo un sound più moderno ma che li identifica ancora appieno, senza progressioni evidenti ma neppure con passi falsi che possano inquadrare i ragazzi di Vasto come una band destinata a sfumare artisticamente. Il nocciolo della questione è proprio questo: per fare cinque dischi di pop elegante, senza seguire il mercato come bandierine sballottate dal vento, rimanendo sé stessi, occorrono più estro creativo e capacità tecniche di un J Ax qualunque, per fare un esempio di chi ha sempre cercato di appoggiarsi alle mode del momento. Ancora più palle servono per reinterpretare dieci brani altrui, pescando in acque profonde e senza scadere in scelte banali, e farli propri con tale maestria, coinvolgendo gli autori stessi, tra i quali citeremo in particolare Eugenio Finardi e Edoardo Bennato, rispettivamente con "Trappole" e "Tira a Campare". Il premio di compito più arduo e con il risultato più sorprendente lo vince la rigenerazione di "Le Louvre" di Garbo, in una ricostruzione dalle fondamenta vera e propria che ha coinvolto Enrico Ruggeri (autore dell'originale), disarticolando il suo scheletro anni '80 originario per ricoprirla di arditissime orchestrazioni. E vogliamo parlare di "Oh Oh Oh" di Faust'o, altra pietra miliare di quella scena che oggi quasi abbiamo dimenticato? 
Se dovessimo cercare il momento più radiofonico, incredibilmente ci dovremo accostare ai ritmi in levare di "Sole Spento" dei Timoria, riadattata con la collaborazione di Omar Pedrini che ne esce a testa alta anche dopo tutti questi anni. 
In tutto il disco, troviamo un solo inedito, intitolato "Molecolare". Nel suo abito di classe in salsa digitale, un po' retrò, ricorda un po' i primi Diaframma se avessero collaborato coi Bluvertigo, ma munita di una sua dignità data principalmente da una scrittura profonda e azzeccata, risuona come un chiaro messaggio: non stiamo solo omaggiando la storia della musica italiana, stiamo anche contribuendo a (ri)scriverla. 

Sicuramente siamo di fronte ad una band che non ha avuto il successo meritato, e si spera che un progetto di questa risma sia in grado di donare loro quell'attenzione che dopo Sanremo sembrava essere scemata. In ogni caso, siamo di fronte a qualcosa che vale la pena ascoltare con attenzione, senza la distrazione facile tipica degli ascolti in streaming. Dategli una chance. 

lunedì 31 luglio 2017

Colouratura - Colouratura (Ian Beabout Productions, 2017)

Nella lirica, un "soprano di coloratura" è un soprano in grado di eseguire melismi su una parola o su una sillaba usando tutta la sua estensione vocale. Colouratura, americanizzato, è anche il nome di questo progetto formatosi nel 2016 e composto dal cantante e musicista Nathan James e dal produttore Ian Beabout, una sorta di Brian Eno e Bryan Ferry senza le tensioni interne, aiutati dalla loro fida schiera di musicisti.

Come, d'altra parte, suggerisce il titolo stesso, si tratta di un lavoro che spazia tra vari generi e colori, presentando una personalità poetica e melodica (cantautorato, folk progressive rock) a cui se ne contrappone un'altra più sperimentale e riconducibile alla musique concrète. Esemplificative del primo stile sono la title-track, "Sea Shanty" e "Until You Slip Away", brano impreziosito ulteriormente dai tormentati vocalizzi di Evyenia Karapolous, mentre la seconda faccia dell'album è rappresentata dai vari collage sonori sparsi per l'album, tra cui "Cacophony" che apre il disco, tutti realizzati con criterio e cura. Probabilmente, però, il brano più interessante è "Jekyll.Hyde" che, come il titolo stesso fa pensare, rappresenta perfettamente i due lati del disco. Il pezzo riporta un po' alla mente le sonorità dei Van der Graaf Generator, grazie anche al sassofono di Dave Newhouse, storico membro dei The Muffins e presenta una melodia che sulle prime appare ostica ma che, proseguendo l'ascolto del brano, viene digerita sempre di più, grazie anche alla costruzione in sé della composizione: molto intelligente, dinamica e con un ottimo assolo di sintetizzatore dello stesso James.

L'album, generalmente, ha una matrice molto seriosa, cosa dimostrata dai testi molto ponderati di James e da brani come l'appena citata "Jekyll.Hyde", la solenne e folkeggiante "Hymn" e gli inquietantissimi collage sonori di "Old Nightmares" e "The Other Side". Eppure, il disco si conclude con una rozza e sporca ripresa punk rock di "Questions", uno dei pezzi più pop e cantautorali, che riporta molto alla mente la scena finale del primo film di Shrek con il cast che canta la sua versione di "I'm A Believer"  dei Monkees, segno che il duo comunque non si prende totalmente sul serio e crea un'opera del genere soprattutto per il divertimento e il piacere di fare musica: in effetti, dopo un finale cacofonico, l'ultima cosa che si sente nel disco è un liberatorio "FUCK IT!" gridato dallo stesso James che capovolge interamente le atmosfere inquietanti e malinconiche che hanno pervaso tutto l'album.

Si tratta di un lavoro ben fatto e che riesce a scampare al rischio di retorica, proponendo composizioni di buon livello e fatte con gusto. È anche un disco che sopravvive a più ascolti, grazie alla sovrapposizione di materiale apprezzabile fin da subito e di altro che necessita di essere macinato ma che, non per questo, è di livello inferiore. Il mélange tra le due anime del disco, pur essendo estremo, si sposa perfettamente, anche grazie ad una sequenza particolarmente azzeccata. La buona resa dell'album è sicuramente aiutata anche dal cantato di Nathan James, dotato di una voce piacevole e molto espressiva, e dall'ottimo cast di musicisti, tra cui ricordiamo le chitarre di Ryan Smurthwaite e Damon Waitkus e l'ottimo pulsare ritmico di Brandon Collins e Connor Reilly. La produzione è decisamente appropriata sia nei brani più intimisti, sia in quelli più sperimentali, con diversi approcci che si rivelano sempre azzeccati. 

Attualmente, il duo ha iniziato alla lavorazione di un secondo album che, sicuramente, ascolteremo con molto interesse. Nel frattempo, potete acquistare questo disco, in copia fisica e digitale, su Bandcamp dove si possono anche leggere le interessanti e precise annotazioni di Beabout nella descrizione di ogni pezzo, atte a descrivere il processo compositivo e di produzione del disco.


Colouratura
Ian Beabout (sinistra), Nathan James (destra)


mercoledì 19 luglio 2017

Bob Balera - È Difficile Trovarsi (Dischi Soviet Studio, 2017)

Bob Balera è il nome d'arte di Romeo Campagnolo, ennesimo tassello della scuderia di Dischi Soviet Studio, label indipendente della provincia di Padova dei cui artisti già tante volte Good Times Bad Times ha parlato in passato. In comune con altri nomi del loro roster (Limone, Riaffiora, Francesco Cerchiaro ma non solo), Bob ha la passione per le parole, ironiche, autoreferenziali, qualche volta salaci, impegnate nel disegnare con caustica freddezza la propria visione di un rapporto di coppia, forse con un'altra persona, ma più in generale con ciò che lo circonda. Il linguaggio prescelto è un electro pop di classe, mai troppo radiofonico, innestato qualche volta su circuiti funk ("Serena"), altre volte su stilemi tipici della musica d'autore italiana ("Bologna", il pezzo forse più spontaneo, genuino e caratteristico di questo lotto). "Giorni di Cicala" riesce a suonare ruvida pur senza eccedere in esplosioni catartiche e fronzoli, grazie ad una band (che sembra chiamarsi I Bob Balera, per l'appunto) che sa il fatto suo in termini di arrangiamento, qualità strumentali e pathos aggiunto. E' nella new wave rivisitata in salsa anni zero di "Roma-Berlino" che Romeo dà il meglio di sé, utilizzando tematiche ormai sentite e strasentite senza assomigliare a nessuno, e permettendosi di chiamare in causa addirittura Pollicino in un afflato di poesia. Leggere il titolo di "Celentano" fa subito pensare all'Adriano nazionale, ma non a caso i suoi toni blues spiattellati su un ritmo incalzante e serrato richiamano le cavalcate che lo resero celebre, di nuovo attualizzandole seguendo un orientamento più moderno e moderato. 

Le dieci canzoni di questo "E' Difficile Trovarsi" giocano sui binari, rischiano, si prendono la responsabilità di dire cose difficili con semplicità e un estro quasi sardonico. La coerenza con cui sono state messe sul piatto, con una più che funzionale stesura della tracklist, regalano a questo pacchetto l'aspetto e il sapore di qualcosa di fresco, innovativo, arrivato al momento giusto. Le cose che vanno di moda ultimamente, certo, sono altre, ma non sarà certo questo a rendere meno gradevole un prodotto di grande livello, altrimenti si chiamerebbero tutti Thegiornalisti e non è quello che speriamo. 

giovedì 13 luglio 2017

Il Grido - Il Grido (Autoproduzione, 2017)

Specifichiamo subito: fare rock nel duemiladiciassette in Italia è talmente demodé che rischia anche di sembrare una cosa più figa di quanto lo fosse dieci anni fa. Definirsi "alternative", invece, ha perso ogni appeal. Il Grido ci provano: sferzano, picchiano, si sbracciano, scelgono suoni ruvidi, ed è sicuramente la loro forza, anche se non è solo l'impatto a fare di un disco rock un vero monolite sonoro. Servono anche le idee, e forse intitolare un pezzo "Amsterdam (Hai Una Cura Per Me?)", per alcuni - non per noi - può sembrare imbarazzante, una cosa da lasciare a J Ax per intenderci. Di fatto, in realtà, questa è una canzone con un gran tiro, ma letto il titolo avevo ragionevolmente avuto timore di sentirmi qualche trovatina per adolescenti strafatti.
Lasciandoci alle spalle questo incipit che investe questi ragazzi come la wrecking ball di Miley Cyrus ma senza una tipa nuda sopra, andiamo ad individuare il valore del disco. "Gospel per Chinaski" e "Dichiarazione d'Indifferenza" sono i brani un po' più tiepidi, diversi, con trovate anomale e derive bizzarre, per certi versi il nadir e lo zenit di questo self-titled. "Lividi" è una riuscitissima cascata stoner, "La Canzone di Merda" è un treno che ti investe a 300 km/h e trova anche il modo di riderci sopra. "Un Briciolo di Noi" ha il ritornello più catchy dell'intero lotto, ma mi viene difficile immaginarmela in radio, ed è una fortuna visto che evidentemente l'obiettivo di questi ragazzi romani è un altro: spaccare e sfasciare tutto, da veri rocker. "Con Un Soffio" prova la svolta acustica, e funziona molto bene, in particolare i feedback finali che lasciano intravedere qualche elemento più sintetico. Non mi va di tralasciare un dettaglio fichissimo: la copertina.

L'approfondimento di questa recensione, ci rendiamo conto, è forse un po' superficiale. Bisogna capire, però, che la storia della musica è fatta di innovatori, e momentaneamente, nel rock, non c'è rimasto assolutamente un cazzo da aggiungere. Poi loro, Il Grido, suonano molto bene, ricordano i primi Ministri con un bagaglio tecnico molto più ampio, o forse i primi Litfiba con un po' di modernità in più nei testi (ci mancherebbe...trent'anni dopo), e quindi ce li faremo bastare, aspettando che quelle influenze elettroniche inserite col contagocce gli permettano di esplorare un territorio un po' più attuale e dimostrare che le palle già tirate fuori qui sono pure grosse.

Lo Yeti - Le Memorie dell'Acqua (SRI Productions, 2017)

Pierpaolo Marconcini è il vero nome de Lo Yeti, musicista emiliano che ha deciso di esordire in questo artisticamente spoglio duemiladiciassette italiano con un lavoro di nove brani intitolato "Le Memorie dell'Acqua". La prima sfida durante l'ascolto è stata quella di capire se fosse una strizzata d'occhio oppure una critica all'omeopatia, ma non si tratta certo di questo: fin da subito, si percepiscono le origini rock del trentaquattrenne bolognese, ben spalmate tra Wire, Pavement e Wilco, gli elementi meno noise (lo so, è un paradosso...) dei Sonic Youth, per poi arrivare in Italia tra Mauro Ermanno Giovanardi, Moltheni, qualche sferzata più grunge - nelle intenzioni più che nei suoni (Ritmo Tribale, Estra) -  e infine aderendo a quell'obbligo morale di ogni buon progetto rock italiano che sembra essere, ultimamente, quello di avere un arco in formazione. A suo favore, in questo senso, va senza dubbio la scelta di Daniela Savoldi, violoncellista ed autrice italiano-brasiliana già al lavoro con molti nomi di chiara fama nella musica underground (Le Luci della Centrale Elettrica, Le Man Avec Les Lunettes, Mannarino) ma anche nel mondo più mainstream (Paola Turci, Nada), e che impreziosisce molto arrangiamenti a tratti spogli se pur completi e complessi nella loro rudimentalità. "Santa Madre dei Miracoli" ha un sapore folk'n'roll, quasi bucolico, distante dalle effusioni rockabilly sbarazzine e sentimentaliste che ammorbano molti progetti analoghi, e con un'ottima narrazione. Il contesto blues è qui solamente introdotto, ma viene sicuramente approfondito meglio nel breve pezzo di chiusura "Sotto Effetto della Luna", pungente ma etereo quanto basta per lasciare una scia emozionale positiva al termine del'ascolto, e chi lo sa, fare da rampa di lancio per un secondo disco che riprenda proprio da qui.
Il testo di "Anidride" è un trip che procede per immagini e metafore, e ben si attaglia all'ironia spontanea di "Rita", entrambi, questi, brani dove l'interpretazione vocale supera la qualità del songwriting strumentale. L'equilibrio tra le due parti è comunque spesso ben rispettato, ed è proprio questo a svolgere un po' la matassa durante il disco, rendendolo più leggero e digeribile. 

Esternare le proprie sensazioni non è facile, soprattutto se lo si vuole fare in musica e con un primo lavoro che potremo definire proemiale. Marconcini sembra in grado di farlo, non risultando banale, non finendo per incarnare l'ennesimo innamoramento per il turpiloquio cantautoriale, circondandosi delle persone giuste (basti pensare a Pierluigi Ballarin e al più che distinguibile contributo da lui offerto qui), facendosi una promozione non urticante ma settoriale, ricavandosi in definitiva una nicchia che lo glorifichi più che lo divori. "Le Memorie dell'Acqua" è sicuramente autocelebrativo, ma in un certo senso è questo elemento autoreferenziale a dargli pasta, grana, ricchezza di trama, sostanza. Un gran bel colpo di scena.

giovedì 6 luglio 2017

Monica Shannon - Ali (Monica Shannon, 2017)

Nella "carriera" di un ascoltatore compulsivo di musica di ogni genere e fattezza, sopraggiunge fatalmente il momento di chiedersi se il disco in riproduzione ha senso o no, se le soluzioni trovate sono originali o meno, e in caso da dove prendono spunto. Questo non viene fatto solamente per il sacrosanto dovere di tracciare delle direttive biografiche dell'artista quando si scrive una recensione, ma anche perché più si fanno numerosi gli album e i progetti discografici conosciuti, più alta è per forza di cose l'asticella dell'accettabile, del gradevole, del sopportabile. La scena italiana è ormai ridotta ad un cumulo di macerie, dove imitare male il peggiore dei Venditti è ancora una scelta commercialmente redditizia (Thegiornalisti), e in generale risulta un mondo di emulatori squallidi che non si pongono più il problema della ricerca.
Perché questa pappardella per descrivere il lavoro di una cantautrice come Monica Shannon, valida interprete dalla voce discretamente pop e uno spettro timbrico di tutto rispetto? Risposta semplice: i Cranberries sono defunti ben prima di sciogliersi, e non sono certo migliorati dopo la reunion, neanche se ci mettiamo i motivi celtici che tanto vanno di moda da quando il paese della Guinness ha iniziato ad investire in feste della birra che ci ammorbano con prezzi folli e musica Irish suonata da tutti quelli che non sono irlandesi, ad ogni San Patrizio. Freddezza e schiettezza a parte, occorre ora analizzare quanto propongono questi nove brani, di cui due cover ("Forbidden Colours" di Ryuichi Sakamoto e David Sylvain, e "L'Isola delle Fate" del meno noto Stefano Pulga), peraltro ottime rivisitazioni in particolare per l'utilizzo pienamente consapevole dell'espressività della voce per trattare temi delicati come l'omosessualità. "Butterflies in the Garden" è il momento dove le atmosfere celtiche risuonano di più, e meglio, impreziosite non tanto dal violino ma da un supporto percussivo più che degno, con incastri ritmici semplicistici ma di grande impatto, e un arrangiamento equilibrato seppur sostanzioso, un po' come in "Light". "Not So Far From Love" rammenta invece troppo i già citati Cranberries, seppur nella loro forma più smagliante (il rock di "No Need to Argue") . "Boundless Space" parla d'amore con grande coraggio e sentimentalismo, risuonando subito in testa come una bella cantilena per bambini, ed è in sostanza il pezzo più esplicitamente popolare. L'apice della vocalità di Monica si raggiunge però quando si naviga in lidi più jazz, fusi con un folk meno canonico e più tecnico, ed accade in particolar modo in "Something You Should Know", ancora una volta un brano romantico, dove spicca non solo la profondità della voce, ma anche un ottimo contributo al sassofono. 

Capiamoci, nonostante le stilettate iniziali potessero far pensare ad un disastro, il disco è ben prodotto, ben mixato e masterizzato, congeniale alle capacità della Shannon e in grado di far risaltare appieno tutte le sue caratteristiche vocali e artistiche. Non sarà nulla di nuovo, ma è fresco e realizzato in maniera impeccabile. In sostanza, se vi piacciono i generi e i riferimenti citati, fa sicuramente per voi, mentre se volete trovare materiale non derivativo e totalmente nuovo dovrete rivolgervi giocoforza ad altri interpreti. Seguiremo comunque gli sviluppi della carriera di quest'artista che sicuramente sa raccontare qualcosa con la sua voce, come un cantautore dovrebbe ancora saper fare senza parlare per forza di social network, droghe e gossip.

venerdì 12 maggio 2017

Diego Esposito - ...E' Più Comodo Se Dormi Da Me... (Rusty Records, 2017)

Partiamo dal "Vecchio Eliporto", titolo della terza traccia di questa mezzora scarsa di lavoro del cantautore toscano Diego Esposito, per un'analisi contenutistica di questo suo esordio. "...E' Più Comodo Se Dormi Da Me..." è un racconto di stampo letterario messo in musica, dove sicuramente contano più le parole degli arrangiamenti, i quali comunque non si lasciano sgretolare e mettere in secondo piano dal protagonismo dell'autore. Nucleo di questo album è certamente il termine "viaggio", inteso sia come spostamento fisico ma anche come evasione dal quotidiano, volo pindarico, flusso di coscienza. Ci sono le donne, che riportano l'attenzione sullo stampo autobiografico di questa opera, ma anche la propria terra ("Toscana"), raccontata con il distacco critico e la nostalgia di chi ha cambiato casa trasferendosi in un luogo molto diverso (Milano). Ciò che colpisce è comunque il modus operandi, la tipologia delle parole prescelte, l'assenza di virtuosismi fuori fuoco: Diego sa colpire con l'ironia senza esagerare con il lessico, rimanendo terra terra senza banalizzare nulla. Andando oltre, i musicisti, tutti validissimi, colorano pezzi di natura cantautorale classica in maniera piuttosto moderna, senza mai eccedere nell'attualizzazione di stilemi che hanno senso solo se lasciati coincidere con la tradizione. Si pensi ad esempio all'inclusione di archi e fiati, orchestrazioni che nell'epoca degli onnipresenti sintetizzatori stanno abbandonando l'orecchio meno allenato degli ascoltatori casuali, ma che invece qui calamitano l'attenzione regalando agli strumentisti più spazio del necessario. Una nota di merito va anche alla durata, misurata scientificamente per non annoiare.
Esposito, con l'ingenuità smaliziata di chi sta dando in pasto ai lupi il primo sforzo discografico, colpisce nel segno e mai come stavolta NON ci sembra forzato il termine "cantautore" per definire chi sa scrivere una canzone, in un periodo in cui di questo nome si fregiano cani e porci. 

giovedì 20 aprile 2017

Margherita Zanin - Zanin (Platform Music, 2017)

"Zanin" della savonese Margherita Zanin è una recente uscita discografica di Platform Music, etichetta indipendente lombarda nuova di zecca. Una pubblicazione non attualissima, che soffre un po' per le influenze antiquate (blues, canzone d'autore italiana fuoriuscita delle prime edizioni di Sanremo, rock folkloristico statunitense), un po' per l'alternanza linguistica inglese-italiano che continua ad essere sempre più canonica nei lavori di artisti particolarmente giovani, vuoi per la maggior consapevolezza nell'uso della lingua anglosassone, ma anche per quella visibile confusione identitaria che permea un po' tutto il mondo musicale odierno nel nostro paese, più teso ad imitare che a creare. A sopperire alle mancanze causate da queste debolezze, intervengono il calore della voce dell'interprete, la precisione chirurgica di alcuni innesti strumentali, gli arrangiamenti generalmente azzeccati e ben concepiti. Nell'eterogeneità del prodotto, che rimane evidente nonostante ogni singolo pezzo sia ben oltre la sufficienza, spiccano momenti tra loro collegati  da una sana matrice emotiva ("Piove", "Travel Crazy"), ma anche una sorprendente attualizzazione di "Generale" di Francesco de Gregori, pallino di molti negli ultimi decenni ma pane per i denti della ventitreenne Margherita, che la fa sua in una maniera del tutto originale. 

Ciò che non si capisce di questo lavoro è la finalità, l'obiettivo. Si vuole fare pop, richiamando l'esperienza ad Amici, oppure si vuole stupire con un prodotto underground? Il risultato è borderline, ondivago, galleggiante tra i due estremi, e ciò lascia spazio ad un giudizio un po' ambiguo: da un lato, i cenni ad un'evidente formazione blues ci fanno sentire ed apprezzare una Janis Joplin dei nostri tempi, dall'altro i brani più acustici come "You're Better Out" non riescono ad emozionare. 
In ogni caso, viste le virtù tecniche di questa ragazza, è possibile vedere molto di più nei futuri dischi, e un album come "Zanin" può trovare posto nelle discografie di molti fanatici di tutto quello che sta in mezzo tra Celentano, la Vanoni, Bob Dylan e Patti Smith.

mercoledì 5 aprile 2017

Michele Cristoforetti - Muoviti (Stivo Records, 2016)

Michele Cristoforetti è un nome pressoché sconosciuto nel panorama musicale italiano, ma non sconcerta nessuno reperire nel suo "Muoviti" una professionalità degna di artisti ben più navigati. Il suo è un cantautorato semplice, genuino, confezionato meticolosamente nei suoni e nelle parole, impreziosito da inflessioni dialettali trentine nella pronuncia che gli donano un'aria di spontaneità non indifferente. Dove non arriva a stupire è invece negli intenti di essere pop, un'urgenza espressiva evidente in molti punti della tracklist ma che sembra forzata, tradendo forse la vera ubicazione di genere che potrebbe essere la canzone d'autore classica à la Francesco de Gregori (di cui troviamo una timida ma convincente reinterpretazione di "La Storia Siamo Noi"). 
Il brano più pregno di sonorità rock tradizionali è il singolo "Sigaro Cubano", che vede anche la partecipazione alla chitarra di Maurizio Solieri, forse incidentalmente il momento più gioioso, divertente e spassionato, anche grazie alle influenze ska. Un altro pezzo degno di nota è "Il Mio Tempo", al primo ascolto già martellante, una profonda analisi interiore di spessore autobiografico. La rivisitazione di "Gente Metropolitana" di Pierangelo Bertoli, ultima delle due cover presenti nel disco, stupisce per la sfacciataggine e la leggerezza con cui si appropria della grande voce dell'interprete di "Sera di Gallipoli" e "Povera Mary", riuscendo a rendergli onore e a non risultare né un imitatore né un wannabe delirante. 
Il missaggio del disco, affidato al conterraneo Jacopo Broseghini dei Bastard Sons of Dioniso, è tagliente e preciso, forse un po' da smussare sulle frequenze alte, ma comunque azzeccato per la tipologia di prodotto. I contenuti molto intimistici lo rendono un album, come già dicevamo, non troppo radiofonico, ma nella scrittura Cristoforetti dà il meglio di sé e se qualcuno si ricorderà di questo lavoro sarà proprio per le parole.

domenica 2 aprile 2017

Rossella Aliano - Blood Moon (Autoproduzione, 2017)

"Una Statua sulla Cattedrale". Citiamo subito il pezzo più classico e tradizionale nel lavoro della siciliana Rossella Aliano, anche perché l'unico, al netto di inflessioni dialettali e riferimenti espliciti, a rivelare la provenienza della cantautrice. Il disco, in verità, ha pochissimi tratti siculi e mediterranei, e vira più verso una musica d'autore moderna, sporca di elettronica, lasciando da parte le influenze più folk, da decenni tipiche dei songwriter di queste terre. In "Ali di Ferro" subentra anche un gusto quasi omerico, una narrativa da epopea, che allontana le sonorità elettroniche sintetiche à la Battiato per rientrare nel mondo del folklore, già circumnavigato dalla stessa Aliano nel suo precedente progetto Liberadante. In generale, il punto forte del disco è sicuramente la virata verso suoni contemporanei, synth, beat, contaminazioni interessanti e che sferzano via il sentore di essere di fronte all'ennesimo racconto di paese messo in musica dal cantastorie di turno. L'interpretazione vocale è ottima, con un unico tasto dolente - la chiusura in inglese - e tantissimi picchi d'intensità. Non virtuosismo barocco ma sentimentalismo, convinzione nel messaggio, emotività. Il singolo "Giuda", come si addice ai brani tipicamente radiofonici, è ballabile, banale, ma rimane in testa, e le soluzioni ritmiche scelte appaiono semplicistiche quanto martellanti ed efficaci.
"Blood Moon" pecca di mancanza di entusiasmo, di dinamiche, di saliscendi emozionali. Risulta un po' piatto, anche nelle scelte estetiche extra-musicali, ma in ogni caso si presenta come un pacchetto interessante, sicura anticamera di qualcosa di più denso e concreto. 

Charlie - Ruins of Memories (Incadenza, 2017)

"Ruins of Memories" di Carlotta Risso, aka Charlie, parte azzoppato da un titolo leggermente maccheronico, anche se meno della media e con dalla sua parte un'aura di evocatività. Del resto, chi sa l'inglese in Italia? Detto questo, il prodottino della giovane cantautrice genovese trasuda freschezza e genuinità post-adolescenziali, pur con un pesante fardello ideologico che sembra fare capolino dietro gli arrangiamenti più americani: portare in Italia il folk, il country e la musica d'autore statunitense senza farla sembrare né derivativa né scopiazzata. Il risultato è un po' a metà strada, ma sarebbe indelicato parlare di un brutto lavoro.
I punti di forza sono sicuramente l'immediatezza e la spontaneità dei brani. Si perché questo "RoM" è in grado di rimanere in testa già dal primo ascolto e per quasi tutta la sua durata, in particolar modo i ritornelli e le linee vocali che si sforzano di più di uscire dagli stilemi stereotipati dei generi affrontati ("Cigarette", "Superior"). Il range di suoni e di stili è molto ampio, a tratti quasi bizzarro, ma i momenti migliori sono quelli folk ("Ash and Arrow"), complice un'interpretazione impeccabile di tutti gli strumentisti.
Dove non arriva a stupire, Charlie ha dalla sua una personalità forte e un songwriting maturo, sebbene nel complesso il disco lasci un po' l'idea di aver ascoltato i Cranberries di "No Need to Argue" con un po' di Bob Dylan e Deborah Allen. E' un po' difficile, solo con questo materiale, capire se ci saranno evoluzioni di portata storica o dischi-replica che lasceranno il tempo che troveranno, ma per adesso la Risso se la scampa con una buona sufficienza complessiva, e un certificato d'eccellenza per quanto riguarda la sua vocalità. 

venerdì 17 febbraio 2017

Karbonica - Quei Colori (Zimbalam, 2016)

Sono già parecchi anni che il panorama musicale siciliano sembra vivere un proprio Rinascimento, con progetti di diversa estrazione e tipologia, uniti però dalla cura al dettaglio e sicuramente da una tendenza alla contaminazione. Sarà l'aria che si respira nella provincia dell'impero, in un'isola caleidoscopica ma insieme cupa, lambita da venti africani che ne influenzano finanche i connotati culturali, ma ciò che esce da questa terra così lontana dal Nord iper-industrializzato è sempre più sovente sinonimo di qualità. In merito ai Karbonica, bastano artwork, definizione dei suoni, precisione del mastering e strategie promozionali selezionate a capire che ci sono dietro ragazzi con la smania di raggiungere un obiettivo, insomma, di spaccare. 
Addentrandoci nell'analisi di questo "Quei Colori", ci imbattiamo subito nella sua struttura monolitica, dieci brani diretti al cuore, intensi, con pochi momenti di distensione ben piazzati a sciogliere i nervi. Liricamente, si tende al testo impegnato, ma senza eccessi populistici o pomposi, come sa mettere in musica in maniera impeccabile solo un nativo di queste terre ("Pezzo d'Africa", "La Tua Rivoluzione"). Sonorità piuttosto moderne ("Ti Racconterò", "Scappo Via") attualizzano un sound tendenzialmente piantato fermamente negli anni ottanta (la title track, che può ricordare i primi Diaframma o Litfiba, ma anche "La Tua Città"). I Karbonica, comunque, funzionano meglio quando tentano di avvicinarsi ai costumi musicali degli ultimi tempi, abbandonando i linguaggi grunge, hard rock e new wave. Questo è fondamentalmente il loro limite (anche un po' il look à la primi Timoria), lasciando trasparire che con una bella operazione di sacrosanto ammodernamento potrebbero trovare il loro posto fisso nell'olimpo dell'alternative/indie rock italiano, uscendo dalle retrovie. Per ora, sembrano aver paura di saltare dal trampolino, sebbene in tribuna gli astanti siano tutti sicuri delle loro possibilità.  

mercoledì 8 febbraio 2017

My Escort - Canzoni in Ritardo (autoproduzione, 2017)

"Canzoni in Ritardo" è forse uno dei lavori con la copertina più calzante vista nell'ultimo periodo, soprattutto per chi è stato pendolare almeno per un breve lasso della propria vita. Oltretutto, di questo disco dei vicentini My Escort ci sono tracce online che partono dal 2015 e arrivano ad oggi, facendo pensare al titolo come a una specie di inside joke dato che giunge all'attenzione di molta parte della stampa solo due anni dopo.
Addentrandosi nella musica, dove la mano esperta del produttore artistico Matteo Franzan risulta ampiamente percettibile, scopriamo che l'asso nella manica del quartetto è un'effervescente ed esuberante mistura di sentimentalismo e alta cultura musicale, il tutto rimescolato in un pop trionfale, delicato e levigato. Molte le riflessioni sui rapporti interpersonali, ben interpretate dal frontman Alessio Montagna, ottimo anche dietro il piano, evidentemente un tema toccante e affrontato con tatto, come si ode e comprende in "Le Cose Non Cambiano". Da quest'ultima, risalendo a priori la setlist dal basso, raggiungiamo il singolo "Riflessi", sulla fugacità del tempo, rilettura romantica e per certi versi oscura dell'ormai storicizzato concetto del "carpe diem". Uscendo dal sentiero del pop incappiamo con sorpresa nel funk sbilenco ed accennato di "Privé", un fiume in piena con continue punzecchiature mordaci e una forma allusiva di sotterraneo humour nero.

Il disco, di per sé, è confezionato molto bene, sia a livello di suoni che di setlist, mettendo in riga dieci pezzi di innegabile classe in una sorta di crescendo emotivo. Ripetendo doverosamente gli ascolti, si inizia però a perdere un po' di concentrazione, per la monotonia di alcune soluzioni a livello di arrangiamento, che rendendo il linguaggio pop più flebile, disorientando riguardo il vero obiettivo dei compositori. Si voleva vendere o fare un prodotto di qualità? O entrambi?
In ogni caso, ci siamo abituati ad una deludente scarsità di opere discografiche siffatte negli anni dieci e speriamo, dunque, di poter ascoltare altro materiale molto presto da questi ottimi autori.

domenica 22 gennaio 2017

Alea - Spleenless (Luna Rossa Records, 2016)

La cantautrice pugliese Alea, nome d'arte di Alessandra Zuccaro, esordisce sulle scene con "Spleenless", un'opera di una maturità quasi contrastante con l'età anagrafica ed artistica, vocalmente in bilico tra il pop e il soul della Winehouse ma, anche qui come la compianta autrice di "Rehab" e "Back To Black", con frequenti capatine nel jazz, nel ragtime, nel blues, complice la mano esperta del songwriter e pianista Pasquale Carrieri
Fin dal suo principio, il disco trasuda tutto il retaggio storico del proibizionismo, le notti passati nei jazz club più nascosti di New York, l'amore per la vocalità di Ella Fitzgerald, soprattutto in "Relais?". A completare il quadro intervengono anche brani più leggeri e divertenti, come "Motivetto", utile a mettere allegria in un lavoro principalmente molto noir, alla continua ricerca di sensazioni pulp. "Miss Celie's Blues" è invece la reinterpretazione di una nota canzone di Tata Vega, guarda caso dal Queens, presa dalla colonna sonora della celebre pellicola "Il Colore Viola". La scelta di intercalare una cover in questa tracklist interamente originale risponde alla precisa esigenza, apparentemente insita nel DNA della Zuccaro, di allacciarsi al mondo del cinema con una voce perfetta per lo scopo. 

Alea può sicuramente crescere, esplorando i tasselli più scanzonati del suo repertorio oppure individuando nelle tinte scure la cifra stilistica che ne accompagnerà la carriera. Farà le sue scelte, ma nel frattempo ci godiamo un album di grande classe e che brillerà sicuramente per diversi mesi nei campionari discografici di genere. 

martedì 10 gennaio 2017

Pupi di Surfaro - Nemo Profeta (Autoproduzione, 2016)

"Nemo Profeta" dei siciliani Pupi di Surfaro si presenta, linguisticamente e musicalmente, come un pot-pourri azzardato, una mescolanza eterogenea e per questo assimilabile a quella convintissima avventatezza che spesso annacqua e riduce in poltiglia diversi prodotti folk, world music o popolari nel nostro paese. Per capire dove invece le nove tracce colgono nel segno, occorre guardare prima di tutto al messaggio, o meglio ancora, al modo in cui viene veicolato: liricamente, esprime un universo spregiudicato, inflessibile, disinvolto e disincantato, con un lessico rigido ma spiritoso, brillante, faceto, e non c'è modo migliore di narrare la propria terra e le proprie origini. Oltre al dialetto siciliano e all'italiano, compaiono molte lingue e musicisti provenienti da terre esotiche, come il senegalese Jali Diabate ("'Gnanzou", forse il brano più attuale per i suoi riferimenti alle stragi di migranti in quello che i romani denominarono Mare Nostrum), a collocare questo lavoro in un mondo che è insieme vissuto e documentato, ma anche fantastico ed onirico, storia di amicizie e legami artistici, contemporaneo per i suoni più digitali che costellano i momenti più tradizionalmente folk riuscendo a estrapolarne quella modernità che spesso manca al genere.
Si viaggia con la fantasia per un'interessante commistione di riferimenti biblici in "L'Arca di Mosè", in realtà una sorta di introspezione sui generis sull'incompletezza dell'essere umano. Potente quanto divertente "Kicking the Donkey Style", con protagonista il marranzano, uno strumento idiofono a pizzico che rinveniamo in molte composizioni siciliane, sarde e calabresi, ma anche turche, sintesi di un gusto musicale tipicamente mediterraneo. "Li Me' Paroli" incita al pensiero critico, a non assecondare le logiche di una società che tende sempre più ad omologare i processi di aggregazione e lo svolgimento delle vite private, probabilmente - rischiando il linciaggio, ci permettiamo di avventurarci in un'interpretazione nostra - sottendendo anche una certa diffidenza verso l'iper-capitalismo dei nostri tempi.

Impossibile apprezzare le tante, troppe, sfumature di questo "Nemo Profeta" con pochi e disinteressati ascolti. Per fruire di tutta la sua carica rivoluzionaria, serve un'empatia musicale con il progetto, il che significa volersi divertire ma anche soffermarsi a cogliere i tanti elementi nascosti che colorano ed ammantano testi, titoli, arrangiamenti, rendendolo un prodotto frizzante, al passo coi tempi senza essere modaiolo, caleidoscopico e al contempo autentico.